Il mondo della tecnologia è abituato agli annunci roboanti, ma quello che è successo con Oracle negli ultimi giorni ha qualcosa di diverso. Un balzo del +40% in Borsa in una sola seduta non è un evento che passa inosservato, soprattutto quando è alimentato da numeri che fanno girare la testa.
Oracle ha dichiarato un backlog da 455 miliardi di dollari, con quattro contratti multimiliardari appena firmati. Ma è l’accordo con OpenAI a catturare davvero l’attenzione: 300 miliardi di dollari in 5 anni, che tradotti significano circa 60 miliardi l’anno a partire dal 2027.
Cifre che fanno riflettere, soprattutto se messe in prospettiva con la realtà finanziaria attuale di OpenAI.
I numeri che non tornano (ancora)
Facciamo due conti. OpenAI oggi:
- Fattura circa 10 miliardi di dollari
- Registra perdite per 8 miliardi l’anno
- Dovrebbe moltiplicare il fatturato di almeno 6 volte per sostenere un contratto da 60 miliardi annui
In altre parole, stiamo parlando di un’azienda che attualmente perde denaro e che si impegna per spese future basate su ricavi che deve ancora generare. È come se qualcuno di noi, con uno stipendio di 50.000 euro e spese per 80.000, firmassi un mutuo da 300.000 euro scommettendo che tra tre anni guadagnerò 400.000 euro.
Possibile? Sì. Prudente? È qui che sorgono i dubbi.
Storia che si ripete: Oracle e i fantasmi del passato
Oracle non è nuova a questo tipo di dinamiche. Chi ha memoria lunga ricorderà gli anni ’90, quando l’azienda arrivò vicinissima alla bancarotta per pratiche contabili aggressive. La strategia era semplice quanto pericolosa: registrare vendite future come se fossero già avvenute, gonfiando i bilanci e creando una crescita apparente che si reggeva su fondamenta fragili.
Oggi il contesto è diverso, Oracle è un’azienda solida e matura. Ma vedere contratti multimiliardari basati su impegni futuri di aziende che attualmente non generano profitti risveglia qualche ricordo scomodo.
Non è solo Oracle, però. È l’intero ecosistema AI che sembra aver sviluppato una sorta di amnesia selettiva rispetto ai rischi.
Il MIT e la dura realtà dei ritorni sull’investimento
I numeri del MIT sono impietosi: il 95% delle aziende che hanno investito in AI generativa non ha ancora visto ritorni concreti. Questo non significa che l’AI sia inutile – tutt’altro. Significa che c’è un divario enorme tra aspettative e realtà, tra promesse e risultati misurabili.
Molti progetti di AI nascono più per “mostrare innovazione” agli stakeholder che per risolvere problemi reali. È il fenomeno del “AI washing”: applicare l’intelligenza artificiale anche dove non serve, spinti dalla paura di essere percepiti come arretrati.
Il risultato? Investimenti miliardari in tecnologie che spesso non generano il valore promesso, almeno nel breve-medio termine.
FOMO: quando la paura di perdere il treno diventa pericolosa
C’è un elemento psicologico in tutto questo che non va sottovalutato: il FOMO (Fear of Missing Out). Le big tech hanno una paura profonda di restare indietro nella corsa all’AI, e questo le spinge a investimenti che in condizioni normali sarebbero considerati temerari.
È comprensibile. Chi vuole essere ricordato come l’azienda che ha “mancato” la rivoluzione dell’intelligenza artificiale? È la stessa dinamica che ha alimentato la bolla delle dot-com: nessuno voleva essere fuori dal treno dell’innovazione, anche quando il biglietto costava troppo.
Ma la storia ci insegna che quando tutti corrono nella stessa direzione spinti dalla paura di essere lasciati indietro, spesso si finisce per correre verso un precipizio collettivo.
L’AI che funziona: casi d’uso concreti vs. promesse future
Non fraintendiamoci: l’AI ha casi d’uso concreti e profittevoli. Li vediamo ogni giorno:
- Automazione di processi che riducono costi e tempi
- Sistemi di raccomandazione che aumentano le vendite
- Analisi predittiva che migliora le decisioni
- Assistenti virtuali che ottimizzano il customer service
Questi sono investimenti che generano ritorni misurabili in tempi ragionevoli. Il problema nasce quando si passa da questa AI “pratica” all’AI “visionaria” che promette di rivoluzionare tutto ma che, per ora, costa più di quanto produce.
Lezioni dalla dot-com: quando le promesse superano la realtà
Chi ha vissuto la bolla delle dot-com riconosce molti pattern familiari:
- Valutazioni astronomiche basate su potenziali futuri piuttosto che su risultati presenti
- Investimenti massivi in tecnologie ancora immature
- Pressione degli investitori per una crescita rapida a qualsiasi costo
- Narrativa del “tutto cambia” che giustifica qualsiasi rischio
La differenza è che oggi l’AI ha fondamenta tecnologiche molto più solide di quanto ne avesse internet nel 1999. Ma questo non elimina il rischio di una sopravvalutazione sistemica.
Segnali di una possibile bolla
Alcuni indicatori fanno riflettere:
- Contratti multimiliardari firmati da aziende in perdita
- Investimenti record senza chiari piani di monetizzazione
- Valutazioni che dipendono interamente dalla crescita futura
- Pressione competitiva che spinge a investimenti irrazionali
- Linguaggio apocalittico (“chi non investe in AI morirà”)
Non sono necessariamente segnali di una bolla imminente, ma sono elementi che meritano attenzione.
Domande per il futuro
Il contratto Oracle-OpenAI solleva domande fondamentali:
- OpenAI riuscirà davvero a generare i ricavi necessari per onorare impegni così massicci?
- Oracle sta scommettendo saggiamente sul futuro dell’AI o si sta esponendo a rischi eccessivi?
- Il mercato dell’AI può sostenere la crescita esponenziale che tutti si aspettano?
- Cosa succede se le aspettative si rivelano troppo ottimistiche?
Conclusione: navigare tra visione e prudenza
L’intelligenza artificiale trasformerà il mondo del lavoro e della tecnologia. Su questo c’è poco da discutere. La domanda è: a che velocità e a che prezzo?
Il contratto Oracle-OpenAI può essere interpretato in due modi:
- Come una scommessa visionaria su una tecnologia che ridefinirà tutto
- Come un segnale di allarme che la corsa all’AI sta sfuggendo di mano
Probabilmente la verità sta nel mezzo. L’AI è reale e trasformativa, ma forse non alla velocità e con la pervasività che alcuni contratti multimiliardari sembrano dare per scontata.
Come sempre, quando si tratta di innovazione tecnologica, l’equilibrio tra visione e prudenza fa la differenza tra il successo duraturo e le bolle che scoppiano lasciando macerie.
E voi, cosa ne pensate? Il contratto Oracle-OpenAI è una scommessa visionaria o un campanello d’allarme?